30 Aprile 2024 - 01:46

Poveri calciatori! Tanti soldi ma tanto fragili…

Il rischio che corrono, dopo una carriera di successi in campo, è di cadere nella dipendenza da gioco. Ma anche nella dipendenza da sostanze. E anche da alcolismo. In realtà,

02 Aprile 2024

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Il rischio che corrono, dopo una carriera di successi in campo, è di cadere nella dipendenza da gioco. Ma anche nella dipendenza da sostanze. E anche da alcolismo. In realtà, quando non si ha più l’età per delle gare, un atleta rischia di entrare in un tunnel che lo porta facilmente a una qualche dipendenza. Lo denunciano due nomi importanti del calcio di 20 anni fa, Paolo Maldini e Beppe Dossena, che insieme a molti altri colleghi hanno costituito l’associazione Special Team, della quale sono rispettivamente presidente e responsabile operativo, per aiutare i loro colleghi più fragili.

Dopo una vita passata sotto i riflettori, la gran parte degli atleti di successo non riesce ad accettare di finire nell’ombra e i soldi che hanno guadagnato sono finiti in qualche eccesso, come appunto alcool o droghe. Per evitare situazioni del genere, quindi, bisogna soprattutto, lavorare sui giovani che stanno iniziando una carriera agonistica facendo capire loro che devono pensare fin d’ora a quando smetteranno di gareggiare. Avranno di che vivere? Come avranno investito i soldi guadagnati nel corso della carriera sportiva? Ci saranno degli amici, vecchi o nuovi, da frequentare o si ritroveranno in solitudine e disoccupati?

PressGiochi MAG nell’ultima edizione della rivista cartacea ha raggiunto Dossena per sapere cosa sta facendo, in concreto, la sua associazione e per capire quanto i problemi degli ex atleti siano legati al gioco d’azzardo.

La vostra Special Team è un’associazione del terzo settore, quindi basata sul volontariato. Ma che tipo di aiuto potete dare ai vostri colleghi che cadono in un vortice di solitudine e dipendenza?

“Sicuramente, non bisogna fare quello che verrebbe spontaneo quando si incontra un vecchio amico in difficoltà: mettergli in tasca dei soldi. Quelli andrebbero solo ad alimentare una qualche dipendenza. Bisogna invece proporre un percorso socio sanitario e un nuovo indirizzo lavorativo. Sono comunque soldi che gli mettiamo a disposizione e che gli permettono per prima cosa di uscire da una situazione difficile e, soprattutto, di trovare una nuova collocazione nel mondo del lavoro”.

Un tipo di aiuto che richiede competenze professionali. A cominciare dalla psicoterapia.

“Certo, per questo abbiamo partner come G Group e Gruppo San Donato, per gli aspetti della sanità”.

Non è facile per l’opinione pubblica accettare che bisogna solidarizzare con persone in difficoltà dopo aver fatto una vita di successi, anche di soddisfazioni mondane e con tanti soldi. È un po’ come dire “anche i ricchi piangono”, no?

“Noi ci rivolgiamo per prima cosa al mondo dello sport, che è una comunità. E come comunità deve pensare a proteggere e sostenere gli atleti anche dopo l’attività agonistica. Prima di andare a chiedere aiuto agli altri, lo sport nel suo complesso deve mettersi a disposizione di queste persone. Non si possono abbandonare. Bisogna ridare loro dignità e orgoglio per vivere un post carriera onorevole. Non possono solo chiamarci quando si deve tagliare un nastro o fare dei selfie. Noi siamo una biblioteca a cielo aperto”.

In che senso una biblioteca?

“Abbiamo tutti storie e conoscenze infinite che relegare al solo mondo dello sport è riduttivo. E invece, ci sono uomini e donne dal grande passato agonistico che si trovano veramente in difficoltà e per pudore non si fanno vedere”.

E il mondo dello sport risponde?

“Il primo anno è stato molto proficuo. Grazie alla federazione, e al presidente Gravina, abbiamo organizzato una cena a Palermo prima di un’importante incontro della Nazionale e abbiamo raccolto dei fondi. Adesso pensiamo di ripetere e se non rispondono… insisteremo”.

Ma se tanti atleti fin da ragazzini hanno dedicato la loro vita allo sport, quando arrivano a fine carriera che preparazione hanno per una vita lavorativa?

“L’atleta possiede delle soft skill, come si chiamano oggi, che in un’azienda sono preziose. Sono abituati al lavoro di gruppo, sono abituati al successo ma conoscono la fatica e il sacrificio. Conoscono le regole. Sanno riconoscere la gerarchia. Hanno un bagaglio di esperienze enorme. Naturalmente, spesso bisogna superare dei problemi di salute mentale. Noi vogliamo aiutarli a superare questa fase e metterli in condizione di rientrare nel mondo del lavoro”.

Lei parla di prevenzione; di intervenire quando un ragazzino inizia la sua carriera sportiva.

“Sì, è in quella fase che bisogna preparare, prefigurare scenari, spiegare a quali rischi vanno incontro”.

Ma un lavoro del genere va fatto prima di tutto con i genitori, no?

“Certo, ma anche con le società sportive, i gruppi dilettantistici”.

In qualche modo è il tipo di lavoro che fanno le federazioni quando spiegano ai più giovani che potranno incontrare falsi amici che prima o poi gli offriranno di vendere qualche partita per le scommesse truccate. Anche questo è un rischio che corrono?

“Ne sono stato anche testimone! Quando allenavo l’under 20 ganese, ci ritrovammo in un albergo in Nigeria dove c’erano solo i giocatori. A parte quattro persone orientali che, abbiamo poi saputo, passavano direttamente nelle camere dei ragazzi a offrire loro soldi e poi scommettevano nei rispettivi Paesi”.

E così torniamo alle scommesse e al gioco d’azzardo. Per quale motivo calciatori e altri sportivi sembrano così attratti dal gioco? E perché arrivano alla dipendenza?

“Nasce tutto dalla depressione, dalla solitudine. Dall’incapacità di avere relazioni. Possono rifugiarsi nel gioco oppure nell’alcool, negli psicofarmaci. C’è anche la dipendenza da sesso. Possono essere tanti i compagni di viaggio che arrivano in conseguenza di un momento di solitudine. Il gioco d’azzardo è una parte”.

Vuol dire che se per un’ipotesi irrealizzabile si eliminassero tutte le opportunità di azzardo, legale e illegale, il risultato sarebbe solo un aumento degli alcolisti?

“Ma sì, non è il gioco in sé. Sì, avremmo neutralizzato una quota parte ma l’azzardo rientra in una fotografia più ampia. Diciamo che è il modo più semplice per fare soldi e può anche essere il primo approccio, in alcuni momenti”.

Ma i calciatori professionisti giocano per i soldi?

“Ma no, i professionisti non hanno bisogno di soldi. Semmai questa cosa può far presa su ragazzi che vengono da situazioni familiari precarie. Per gli altri è la ricerca di evasione, la voglia di adrenalina, di qualcosa di alternativo alla routine e alla noia che li condiziona. Noi non siamo contro il giochi, che usati in maniera intelligente servono anche a fare cultura, a formare. Anzi, noi stiamo pensando di utilizzare dei videogame per alcuni progetti”.

Quando pensate di iniziare concretamente la vostra attività di aiuto e di prevenzione?

“Entro l’anno vogliamo varare i progetti per la scuola e già da ora interveniamo quando ci chiamano per delle emergenze. Per adesso sono interventi spot ma per dopo l’estate avremo un programma ben strutturato”.

PressGiochi MAG

Fonte immagine: https://depositphotos.com