15 Maggio 2024 - 18:38

Proibizionismo e gioco patologico: l’azzeramento delle opportunità di gioco non ‘guariscono’ magicamente il malato

La principale domanda che si pongono tutti quelli che, a vario titolo o per puro interesse personale, si occupano del gioco d’azzardo come fenomeno sociale, è certamente questa: perché, in

14 Marzo 2017

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La principale domanda che si pongono tutti quelli che, a vario titolo o per puro interesse personale, si occupano del gioco d’azzardo come fenomeno sociale, è certamente questa: perché, in Italia esso ha raggiunto livelli di allarme così elevati da meritarsi l’elezione al rango di nuova “malattia del secolo”?

La risposta non è assolutamente scontata. Da sempre, si ragiona non su dati reali ma su sensazioni e proiezioni statistiche a dir poco discutibili. Le cronache quotidiane solo sporadicamente accertano un qualsivoglia legame fra il Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) e fenomeni criminosi quali omicidi/suicidi, furti/rapine, violenze private/familiari, estorsioni, ecc.

E’ stato ripetutamente affermato dagli esperti in materia che non è il gioco in sé a generare la “malattia”, ma essa insorge solo in soggetti psicologicamente deboli, generalmente affetti da vari disturbi comportamentali (di ansia e di umore, ad esempio).

Ecco perché, nell’ambito delle “dipendenze”, la dottrina ha ritenuto necessario creare una sottocategoria, definita “dipendenza compulsiva da non sostanze”, chiaramente separata dalle tossicodipendenze. L’elemento che le accomuna è lo stato di bisogno, generato da un pervasivo senso di insoddisfazione, in cui si trova il soggetto che viene in esse coinvolto. Una condizione psicologica che può sfociare nell’uso di droghe, o nell’abuso di alcol, tabacco o farmaci prescrivibili (che di fatto sono “droghe legali”), così come il dedicarsi in maniera smodata (compulsiva) a tipici rituali di piacere, che vanno dallo shopping alla pornografia, dalla navigazione in internet alla passione per i videogiochi, sino ad arrivare naturalmente al gioco d’azzardo.

Anche l’hobby più innocuo, quale può essere ad esempio il collezionismo, può generare delle derive: isolamento dalla realtà, spese al di là della propria capacità, perdita di attenzione nei riguardi del lavoro e della famiglia.

Ma, alla base di tutto c’è uno stato psicologico precario e la conseguenza incapacità di controllarsi. Se così non fosse, l’Italia e il mondo intero sarebbero pieni di soggetti “dipendenti” da qualcosa!

Comunque, il fatto che tali degenerazioni colpiscano, fortunatamente, fasce molto ristrette di popolazione, e che non siano connesse all’uso di sostanze nocive per la salute, non può lasciare inerti le istituzioni.  Le quali, al contrario, hanno il dovere di intervenire sul duplice binario della prevenzione e della assistenza/recupero dei soggetti compulsivi.

Andare oltre, significherebbe in ogni caso applicare una limitazione alle sacrosante libertà individuali, e al tempo stesso decretare una condanna sociale e morale alle persone eccessivamente dedite a certe pratiche.

Il che potrebbe anche avere un senso e una giustificazione nell’ambito dei regimi totalitari, dove lo Stato punta a controllare capillarmente la società in tutti gli ambiti di vita, ma non certo in uno Stato civile, moderno e democratico come l’Italia!

L’autoderterminazione o, se preferite, il libero arbitrio, non debbono subire condizionamenti di sorta da parte di una “entità superiore”, ovviamente fin quando ciò non vada a ledere la libertà e i diritti altrui.

Né ci si può appellare al rispetto del cosiddetto “senso comune del pudore”, perché i contorni di questo astratto principio vengono via via erosi col passare dei tempi, né si può pretendere che una cosa che sia “scandalo” per alcuni lo diventi per tutti. Il progresso è anche questo: nella progressiva liberazione da quei moralismi che magari non riteniamo falsi, ma che imbrigliano l’evoluzione della società in tutti i suoi aspetti e quindi ci costringono ad essere tutti più o meno uguali, asserviti a degli schematismi di “normalità” che molto sa di appiattimento e di repressione.

Insomma, per quanto poi detta liberazione abbia anche dei risvolti negativi, essa è assolutamente da preferire rispetto a un vivere minimalista.

Veniamo al gaming. Per la maggioranza delle persone sinonimo di sogno, quello di una vincita che può cambiare la vita, anche spendendo pochi soldi. Per gli scommettitori ippici e sportivi è un tentativo di mettere a profitto le proprie conoscenze. Per alcuni, senza distinzione, è una scarica di adrenalina, quella tipica di affrontare un rischio. Per pochi è una malattia, o per meglio dire una nevrosi ossessivo-compulsiva.

La differenza, in quest’ultimo caso rispetto a tutti gli altri, è che il soggetto non persegue obiettivi precisi, il lucro o il divertimento, bensì l’appagamento di un bisogno inconscio e latente, che però non sarà mai appagato per intero.

Ciò significa essenzialmente due cose: che a generare la compulsività non è il tipo di gioco in sé, ma il modo con cui lo si approccia; che la diminuzione se non addirittura l’azzeramento delle opportunità di gioco, non “guariscono” magicamente il malato.

Chiunque venga privato di un qualcosa a cui tiene, andrà a cercarla altrove (nel nostro caso, gioco illegale) oppure si dedicherà ad attività altrettanto deleterie, per sé stesso e per la sua famiglia.

Ed eccoci al punto nodale: tra la prevenzione e la cura deve esserci un intervento diretto da parte dei congiunti e delle persone che sono a più stretto contatto col giocatore compulsivo, che può esplicarsi in una costante azione di controllo, di dissuasione, di diversione, financo di interdizione all’accesso al denaro, con immediata richiesta di sostegno da parte di operatori specializzati. Se tutti facessero questo, di gioco patologico ne sentiremmo parlare molto di meno!

Fermo restando, però, che non si può comunque impedire a nessuno di impiegare nel gioco anche ingenti somme di denaro, se queste rientrano nella piena disponibilità del giocatore. Sarebbe risibile l’imposizione di un qualsivoglia parametro che stabilisca in maniera certa cosa rientra nei doveri di sostentamento della famiglia o meno: altrimenti, si finirebbe col dover decretare per legge persino le soglie minime delle paghette settimanali ai pargoli o il numero degli abiti firmati da regalare alla moglie!

Quanto poi alle responsabilità della filiera del gioco, dice bene chi afferma che di responsabilità il settore se ne è assunte finora pure troppe. Avete mai visto un tabaccaio ammonire un cliente che compra 4 pacchetti di sigarette al giorno? Avete mai visto una cassiera di supermercato fare storie se un tizio si presenta con un carrello pieno di superalcolici? E nei locali di somministrazione, avete mai visto un esercente impedire ad un cliente di bere tutto quel che vuole, se non fino a quando il suo stato di ubriachezza provoca disagi alla clientela?

Gli operatori del gioco, a qualsiasi livello, sono lì per venere nel pieno rispetto delle regole. Punto e basta! Se poi fanno di più, ben venga, ma deve essere una loro libera scelta e non un’imposizione. Né a loro, né allo Stato può competere di entrare nella sfera personale dell’individuo, al di là dell’accertamento della maggiore età. Che sia ricco o povero, normodotato o disabile, scapolo o ammogliato, questi ha il diritto di giocare quanto vuole. E poi, chi mai correrebbe il rischio di fare discriminazioni arbitrarie, se non è la legge tessa a stabilirle?

E questo è tanto vero che, alla fine, sono stati escogitati altri stratagemmi per cercare di arginare il gioco. Alcuni ridicoli, diciamocelo chiaro, come quelli delle distanze; altri più plausibili ma troppo arbitrari, quali le limitazioni di orario, in quanto possono cambiare da comune a comune e dar luogo di conseguenza a fenomeni migratori; altri sicuramente apprezzabili, come tutti quelli contenuti nella Legge Balduzzi.

Il peggio del peggio, però, deve ancora arrivare e sta nella Legge di Stabilità 2016 – la riduzione del 30%, non dei prodotti di gioco ma delle sole Awp, e la penalizzazione di bar e tabacchi – in attesa che abbia corso. Qui non ci sono finalità di prevenzione, controllo o cura che tengano. C’è solo la volontà di far fuori una volta per tutte i gestori, che solo questo hanno per competere sul mercato, e per dirottare i giocatori nelle sale, dove ad aspettare i giocatori ci sono le Vlt, schierate come un plotone di esecuzione.

Slot martiri del business? Dirla adesso sembra un’iperbole. Ma vedrete, un giorno qualcuno le rimpiangerà.

PressGiochi