Consiglio di Stato e Corte di Giustizia europea assumono posizioni opposte su un dubbio che affligge il settore italiano del gioco da anni: il divieto di pubblicità è una regola
Consiglio di Stato e Corte di Giustizia europea assumono posizioni opposte su un dubbio che affligge il settore italiano del gioco da anni: il divieto di pubblicità è una regola tecnica che doveva essere notificata alla Commissione europea – e sottoposta al vaglio degli altri Paesi membri – prima di essere adottata?
Se così fosse, le conseguenze sarebbero stravolgenti, perché il divieto sarebbe stato adottato illegittimamente e quindi non potrebbe essere applicato.
E questo vuol dire che gli operatori potrebbero tornare a fare pubblicità ai prodotti di gioco. Ma anche che dovrebbero essere cancellate tutte le sanzioni – alcune valgono decine di milioni di euro – che AgCom in questi anni ha inflitto a concessionari, giganti del web, social media, testate giornalistiche e creator di contenuti digitali. Si tratterebbe però non di un problema sostanziale, ma di un vizio di forma, che quindi potrebbe essere ‘sanato’.
Tornando alle sentenze, il primo a intervenire, a inizio marzo, è il Consiglio di Stato. Sebbene alla fine rimetta la questione alla stessa Corte di Giustizia europea – saranno quindi i colleghi comunitari a stabilire se il diritto comunitario sia stato violato o meno – afferma a più riprese che il divieto di pubblicità non possa essere considerato una regola tecnica. “Una simile statuizione comporterebbe, in sostanza, l’inefficacia di una regola posta a mera tutela dei consumatori e della loro salute, e, in particolare, dei soggetti più vulnerabili, che il divieto di pubblicità mira a preservare dai rischi di dipendenza socio-economica della ludopatia”. Secondo i giudici italiani occorre partire da una distinzione: è una regola tecnica quella che “persegua la finalità e l’obiettivo di regolare anche solo alcuni aspetti” del servizio offerto. E ad esempio rientrano in questa definizione “le regole generali sui giochi”. Non può essere considerata una regola tecnica, invece, quella che “non riguardi propriamente tale servizio, ma al contrario l’attività di pubblicità del servizio”. Questa norma non stabilisce “un requisito di natura generale” che incide “sull’attività propria del prestatore del servizio, nel caso di specie, la raccolta del gioco”; al contrario regola il “differente aspetto relativo alla pubblicità di tale attività”. Insomma, per i giudici italiani, il decreto Dignità “non limita propriamente la possibilità della Società di svolgere la propria attività, né preclude ad altri operatori di stabilirsi in Italia per svolgere omologo servizio; non si tratta, quindi, di una regola che pone restrizioni della libera circolazione del servizio in sé o alla libertà di stabilimento di imprese che lo esercitino, ma solo di una regola che vieta di pubblicizzare tale servizio”. E questo vuol dire che il divieto di pubblicità “opera su un piano differente e non incidente sulle finalità e sugli obiettivi della direttiva”, appunto evitare che si creino restrizioni alla libera circolazione dei servizi.
Insomma, l’ordinanza di Palazzo Spada sembra a tutti gli effetti un atto dovuto, del resto il Consiglio di Stato è il tribunale di ultima istanza e – a meno che il dubbio non sia palesemente infondato – è tenuto a chiedere l’intervento dei colleghi comunitari. Il problema è che i giudici europei sembrano pensarla in maniera diametralmente opposta, almeno stando alla sentenza con cui rispondono alla questione sollevata da un giudice lituano. Ovviamente bisogna sottolineare che ci sono differenze sensibili rispetto all’Italia. Il caso in questione è molto specifico, l’operatore di gioco era stato sanzionato per dei messaggi che aveva pubblicato sul proprio sito di gioco. Quindi – viene da pensare – in un contesto in cui il confine tra il servizio e la pubblicizzazione del servizio sia molto sottile. Inoltre, la normativa è differente da quella italiana; la Lituania ha adottato una prima forma di divieto – che sostanzialmente riguardava solo le attività promozionali – nel 2015, quindi prima che entrasse in vigore l’obbligo di notifica alla Commissione Ue. La normativa è stata modificata successivamente, e adesso prevede il divieto generale di “incoraggiare la pratica del gioco d’azzardo diffondendo informazioni o compiendo atti di persuasione del pubblico a parteciparvi in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo”. Questa norma risale al 2021, quando l’obbligo di notificare le regole tecniche era pienamente operativo.
Ma detto questo, il quesito che sollevano i giudici lituani è sostanzialmente lo stesso dei colleghi italiani: il divieto costituisce una regola tecnica?
E la Corte di Giustizia risponde in modo netto: “una normativa nazionale che vieta di incoraggiare la pratica del gioco d’azzardo a distanza mediante la pubblicazione di informazioni relative a tali giochi sul sito Internet di un operatore di tali giochi costituisce una regola tecnica”. In sostanza, per i giudici comunitari il divieto non incide solamente sull’attività promozionale, ma “riguarda specificamente i servizi” offerti dalla società. La Corte in particolare dà una definizione più ampia di regola tecnica: non serve che una norma del genere “abbia nel suo insieme come finalità e obiettivo specifici di disciplinare servizi della società dell’informazione, ma è sufficiente che essa persegua tale finalità o tale obiettivo mediante talune sue disposizioni”.
Le premesse sono buone, insomma, ma occorre cautela. Primo perché ci vorranno un paio di anni prima che la Corte di Giustizia si pronunci sul divieto italiano. In questo lasso di tempo, i giudici potrebbero limare il proprio orientamento o, in ogni caso, potrebbero ritenere che il quadro italiano presenti delle differenze sostanziali. Ma soprattutto perché, anche se la Corte di Giustizia dovesse censurare in toto la normativa italiana, non arriverebbe a dire che il divieto di pubblicità è di per sé contrario al diritto europeo. Il problema è un vizio procedurale, la mancata notifica preventiva alla Commissione Ue, appunto. E questo vuol dire anche che se governo e Parlamento continuassero a ritenere che il bando totale sia la soluzione migliore, potrebbero approvare una nuova norma. Questa volta però rispettando l’iter.
Gioel Rigido – PressGiochi MAG
Fonte immagine: AIGEN