La Corte di giustizia europea ha fatto luce su un caso avvenuto prima del 2015 e riguardante una società tedesca che proponeva giochi tramite una piattaforma commerciale online
Se uno sviluppatore di applicazioni, stabilito in uno Stato membro, prima del 1º gennaio 2015 ha fornito prestazioni di servizi per via elettronica, come l’accesso ai livelli successivi in un gioco elettronico, a clienti finali residenti nel territorio dell’Unione europea tramite un’«app store» messa a disposizione da un soggetto passivo stabilito in un altro Stato membro, il soggetto che deve fatturare il costo ai clienti è il gestore dell’app-store, anche se le conferme d’ordine fornite a seguito del pagamento indicano lo sviluppatore come prestatore e indicano l’aliquota Iva applicabile nello Stato membro in cui quest’ultimo è stabilito. È questa la conclusione principale indicata dalla Corte di giustizia, con la sentenza depositata il 9 ottobre 2025 resa nella causa C-101/2024, interpellata dalla Corte federale tedesca sull’applicazione dell’articolo 28 della direttiva Iva, che prevede che se un soggetto passivo agisce in nome proprio ma per conto terzi e partecipa ad una prestazione di servizi, si ritiene la prestazione svolta a titolo personale.
Il caso oggetto della pronuncia
Come riporta Fiscooggi.it – Una società, con sede in Germania, che sviluppava applicazioni di giochi per dispositivi mobili, utilizzava, al fine di commercializzare tali applicazioni, una piattaforma commerciale digitale online per i software (detta «app store»), che, fino al 31 dicembre 2014, era gestita da un’impresa con sede in Irlanda. I clienti finali che utilizzavano dispositivi mobili dotati di un determinato sistema operativo potevano scaricare gratuitamente dette applicazioni dall’«app store».
L’acquisto a pagamento di miglioramenti o di altri vantaggi (acquisti «in-app») consentiva al cliente finale di avanzare a un livello superiore del gioco che aveva precedentemente scaricato o di ottenere altri vantaggi. Il cliente finale poteva selezionare i miglioramenti o i vantaggi desiderati nell’applicazione di gioco della società tedesca e farli attivare a pagamento, mediante l’app.
Più precisamente, dopo che il cliente finale aveva selezionato un articolo a pagamento, nell’applicazione di gioco si apriva una finestra detta «pop-up», che indicava il prodotto scelto, il suo prezzo lordo nonché le modalità di pagamento. Tale cliente cliccava, poi, sul pulsante «Acquista» e si apriva una seconda finestra, nella quale venivano ricordati l’oggetto dell’acquisto, il prezzo e la modalità di pagamento. Infine, dopo aver cliccato sul pulsante «Conferma», si apriva una terza finestra, nella quale veniva indicato che il pagamento era stato effettuato con successo. Il cliente finale poteva, poi, proseguire immediatamente il gioco nell’applicazione. Sulle tre finestre compariva il logo dell’impresa irlandese, mentre la società tedesca non veniva menzionata quale prestatore.
Dopo l’acquisto, il cliente finale riceveva dall’impresa irlandese una conferma d’ordine tramite e-mail, contenente il logo dell’«app store» e l’indicazione che un acquisto era stato effettuato presso la compagine tedesca. Questa e-mail menzionava altresì il prezzo lordo e l’importo dell’Iva (tedesca) inclusa in tale prezzo. L’impresa irlandese indicava mensilmente alla società tedesca gli acquisti «in-app» effettuati dai clienti finali ed emetteva una fattura per la commissione, pari al 30% di ciascun acquisto.
Inizialmente la società tedesca riteneva di essere il prestatore dei servizi forniti ai clienti finali, cosicché dichiarava l’Iva tedesca per i clienti finali stabiliti nell’Unione europea.
Tuttavia, successivamente decideva di presentare dichiarazioni Iva in rettifica, sostenendo di aver concluso con la società irlandese un contratto di commissione per la prestazione di servizi, ai sensi dell’articolo 28 della direttiva Iva. Pertanto, essa stessa avrebbe fornito servizi alla compagine irlandese e quest’ultima sarebbe intervenuta in qualità di prestatore di servizi nei confronti dei clienti finali. Ritenendo, dunque, che il luogo delle prestazioni che aveva fornito all’impresa irlandese si trovasse in Irlanda, conformemente all’articolo 44 della direttiva Iva, la società tedesca riduceva la base imponibile delle sue operazioni a valle soggette ad Iva in Germania dell’importo degli acquisti «in-app» effettuati dai clienti finali stabiliti nell’Unione.
Il contenzioso nazionale
A seguito di una verifica fiscale, tuttavia, l’Amministrazione tributaria riteneva che l’impresa irlandese fosse un semplice intermediario. In tal senso, sebbene il processo di acquisto fosse effettuato tramite l’«app store», le condizioni di utilizzo del servizio erano, tuttavia, ricordate al cliente finale in ogni fase dell’acquisto «in-app». L’impresa irlandese avrebbe, quindi, chiaramente indicato al cliente finale, al momento di ogni acquisto, che le operazioni erano realizzate a nome di un terzo e che detta compagine si limitava a riscuotere il prezzo. Di conseguenza, l’Amministrazione fiscale emetteva avvisi di accertamento Iva e recuperava l’imposta, senza tener conto delle rettifiche operate dalla società tedesca.
Dopo la procedura di reclamo, respinta dall’Amministrazione, la società tedesca proponeva ricorso avanti al tribunale tributario di Amburgo, che lo accoglieva, sostenendo che le prestazioni di servizi fornite dalla compagine non erano imponibili in Germania, in quanto il beneficiario di tali prestazioni era la società irlandese.
L’Amministrazione fiscale ricorreva, allora, in cassazione avverso la sentenza richiamata, dinanzi alla Corte tributaria federale.
Questioni pregiudiziali
In tale contesto, la Corte tributaria federale ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia Ue le seguenti questioni pregiudiziali:
La decisione
La Corte di giustizia premette che, in forza dell’articolo 28 della direttiva Iva, qualora un soggetto passivo che agisca in nome proprio, ma per conto terzi, partecipi ad una prestazione di servizi, si ritiene che egli abbia ricevuto o fornito tali servizi a titolo personale.
Detta norma è formulata in termini generali, senza contenere restrizioni quanto al suo ambito di applicazione o alla sua portata e comprende, quindi, tutte le categorie di servizi, crea la fictio iuris di due prestazioni di servizi identiche fornite consecutivamente, in forza della quale si ritiene che l’operatore che partecipa ad una prestazione di servizi, cioè il commissionario, in un primo tempo, abbia ricevuto i servizi in questione dall’operatore per conto del quale agisce, cioè il committente, e, in un secondo tempo, abbia fornito personalmente tali servizi a un cliente.
Viene, in questo modo, stabilita la regola secondo cui il soggetto passivo che, nell’ambito di una prestazione di servizi, agisce in qualità di intermediario in nome proprio, ma per conto di terzi, si presume essere il prestatore di tali servizi.
Nel caso di specie, il tribunale tributario di Amburgo ha ritenuto che la società irlandese avesse agito in nome proprio nell’ambito degli acquisti «in-app» in questione, dal momento che, in particolare, l’integrazione dei prodotti nell’interfaccia dell’«app store» avrebbe avuto come conseguenza che il cliente finale medio si sarebbe aspettato che l’impresa irlandese fosse la controparte contrattuale ed il venditore dei prodotti, e ciò tanto più che tale cliente finale, prima di poter acquistare tali prodotti, doveva per prima cosa iscriversi nell’«app store» e accettarne le condizioni d’uso. Per contro, il fatto che la società irlandese agisse per conto terzi non sarebbe emerso con sufficiente chiarezza durante il processo di acquisto nell’«app store».
Ebbene – osserva la Corte di giustizia – il giudice tedesco si era interrogato sulla rilevanza, ai fini dell’applicazione dell’articolo 28 della direttiva Iva, della duplice circostanza che, nelle conferme d’ordine fornite dall’impresa irlandese ai clienti finali, la società tedesca fosse menzionata quale prestatore e che fosse indicato l’importo dell’Iva tedesca.
Alla luce della giurisprudenza europea, il solo fatto che il cliente finale venga a conoscenza dell’identità del committente mediante le conferme d’ordine, che tale cliente finale riceve necessariamente solo dopo la conclusione del processo di acquisto, non consente di escludere l’applicabilità dell’articolo 28 della direttiva Iva se dagli altri elementi pertinenti risulta che le condizioni per l’applicazione di tale disposizione sono soddisfatte.
Il luogo della prestazione dei servizi
Passando a scrutinare la seconda questione pregiudiziale ad essa sottoposta, gli eurogiudici premettono che l’articolo 44 della direttiva Iva stabilisce che il luogo delle prestazioni di servizi resi ad un soggetto passivo che agisce in quanto tale è il luogo in cui questi ha fissato la sede della propria attività economica mentre, conformemente all’articolo 45 della direttiva in parola, il luogo delle prestazioni di servizi resi a persone che non sono soggetti passivi è, in linea di principio, il luogo in cui il prestatore ha stabilito la sede della propria attività economica.
Di conseguenza – per quanto riguarda il luogo della prestazione di servizi che, in forza dell’articolo 28 della direttiva Iva, si ritiene che un soggetto passivo abbia ricevuto da un altro soggetto passivo, i quali agiscono rispettivamente in qualità di commissionario e di committente – è giocoforza constatare che tale luogo debba essere determinato conformemente all’articolo 44 della direttiva summenzionata.
Fatturazione e rischio di perdita del gettito fiscale
Nello scrutinare la terza questione, infine, la Corte di giustizia osserva che, conformemente all’articolo 203 della direttiva Iva, l’Iva è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura.
Tale disposizione mira ad eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale che può derivare dal diritto a detrazione previsto da tale direttiva. Esso è, pertanto, destinato ad applicarsi nel caso in cui l’Iva sia stata erroneamente fatturata e vi sia un rischio di perdita di gettito fiscale a causa del fatto che il destinatario della fattura in questione potrebbe avvalersi del proprio diritto alla detrazione di siffatta Iva.
Nel caso di specie, la società tedesca ha, anzitutto, autorizzato la società irlandese a designarla quale prestatore nelle conferme d’ordine ed a trarne le conseguenze in materia di Iva nei confronti del cliente finale assumendo l’Iva tedesca come l’Iva applicabile alle prestazioni di servizi, per poi difendere il punto di vista opposto nei confronti dell’Amministrazione fiscale.
Pertanto, alla luce del comportamento contraddittorio della società tedesca, potrebbe – secondo la Corte Ue – essere giustificato ritenere che tale società resti debitrice dell’Iva sulla base dell’articolo 203 della direttiva Iva, e ciò al fine di evitare un rischio di perdita di gettito fiscale causato da un conflitto negativo di competenze tra le autorità tributarie tedesca e irlandese, in conseguenza del quale, in definitiva, l’Iva non sarebbe riscossa in nessuno di tali Stati membri.
Del resto, l’articolo 203 della direttiva Iva è funzionalmente connesso al diritto alla detrazione dell’Iva, in quanto mira ad evitare il rischio di perdita di gettito fiscale derivante da una sovrastima dell’importo della detrazione. Orbene, le prestazioni di servizi in questione sono state fornite non già a soggetti passivi per le esigenze della loro impresa, bensì a persone che non sono soggetti passivi. Non sussiste, pertanto, nel caso di specie, rischio di perdita di gettito fiscale connesso al diritto alla detrazione dell’Iva indebitamente fattura, e l’articolo 203 della direttiva Iva non trova, quindi, applicazione.
Conclusioni
1) L’articolo 28 della direttiva Iva deve essere interpretato nel senso che qualora un soggetto passivo stabilito in uno Stato membro abbia fornito, prima del 1º gennaio 2015, prestazioni di servizi per via elettronica a persone che non sono soggetti passivi residenti nel territorio dell’Unione europea per il tramite di un’«app store» messa a disposizione da un soggetto passivo stabilito in un altro Stato membro, l’applicazione di detto articolo 28 non può essere esclusa per il solo motivo che le conferme d’ordine fornite, da quest’ultimo soggetto passivo, ai clienti finali designano il primo soggetto passivo come prestatore e indicano l’aliquota dell’imposta sul valore aggiunto applicabile nello Stato membro in cui quest’ultimo è stabilito.
2) La direttiva Iva deve essere interpretata nel senso che qualora si ritenga che un soggetto passivo stabilito in uno Stato membro abbia ricevuto e fornito personalmente una prestazione di servizi ai sensi dell’articolo 28 della direttiva Iva, il luogo della prestazione di servizi fornita – in virtù della fictio iuris – a tale soggetto passivo da un soggetto passivo stabilito in un altro Stato membro deve essere determinato conformemente all’articolo 44 di detta direttiva.
3) L’articolo 203 della direttiva Iva deve essere interpretato nel senso che qualora un soggetto passivo stabilito in uno Stato membro abbia fornito prestazioni di servizi per via elettronica a persone residenti nel territorio dell’Unione europea che non sono soggetti passivi per il tramite di un’«app store» messa a disposizione da un soggetto passivo stabilito in un altro Stato membro, con la conseguenza che si ritiene che quest’ultimo soggetto passivo abbia ricevuto tali prestazioni di servizi e le abbia fornite ai clienti finali, il primo soggetto passivo non può essere considerato debitore dell’Iva nel suo Stato membro di stabilimento in forza di tale articolo 203 per il motivo che, nelle conferme d’ordine trasmesse ai clienti finali, tale primo soggetto passivo è stato designato, con il suo consenso, quale prestatore ed è stata indicata l’aliquota Iva applicabile nel suo Stato membro di stabilimento.
Fonte:
Data della sentenza
9 ottobre 2025
Numero della causa
Causa C-101/2024
Nome delle parti
Finanzamt Hamburg-Altona;
contro
XYRALITY GmbH.
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