In un’epoca in cui le norme sul gioco a vincita stanno diventando ovunque sempre più stringenti – sia per contrastare l’illegalità, che per proteggere i giocatori – ci si sta
In un’epoca in cui le norme sul gioco a vincita stanno diventando ovunque sempre più stringenti – sia per contrastare l’illegalità, che per proteggere i giocatori – ci si sta interrogando fino a quali limiti si può spingere una regolamentazione affinché non ne venga compromessa la funzionalità.
Prescindendo dai pochi regimi di monopolio rimasti in vita, obsoleti e pieni di falle incolmabili, la nostra attenzione va sui mercati con licenze aperte, in cui più operatori possono richiedere e ottenere permessi.
E’ assodato che la misura ultima del successo normativo è la canalizzazione, ovvero quanto la raccolta di gioco avviene all’interno del mercato regolamentato invece di spostarsi verso operatori senza licenza. Questo è l’ago della bilancia per determinare se un apparato normativo è di successo o fallimentare.
Sembrerà un po’ drastica come affermazione, ma a ben vedere, nel momento in cui i giocatori trovano soddisfazione nel giocare sui canali legali, significa che: il regolatore si è spinto a creare un carnet d’offerta ampio e appetibile, mentre gli operatori licenziati sono stati in grado a loro volta di costruire degli environment a misura di utente.
Va da sé, poi, che più aumenta la massa critica, più il turnover cresce. Perciò lo Stato può anche rinunciare a qualcosa in termine di introiti erariali, per dare un margine di soddisfazione in più sia al giocatore che al concessionario.
Il corollario di questi teoremi è piuttosto intuitivo: un modello normativo di successo non può basarsi esclusivamente su misure punitive contro il gioco non autorizzato, ma deve altresì realizzare le condizioni che consentano agli operatori autorizzati di competere efficacemente.
Ed è proprio questo il punto in cui la politica e i regolatori hanno difficoltà. Il motivo è che per creare un mercato autorizzato attraente bisogna allargare un po’ i cordoni della borsa, dando più spazio ad elementi quali, ad esempio, i bonus in qualsivoglia forma (problema vissuto intensamente in molti mercati esteri), e la pubblicità di prodotto (problema mondiale ormai), che però i legislatori tendono in genere a frenare.
In tante giurisdizioni (Italia compresa) l’advertising era od è diventato invasivo sin oltre le soglie della sopportazione, tanto che, a un certo punto, il legislatore è passato all’eccesso opposto: quello di vietare tutto. Col passar del tempo, però, ci si è accorti che è praticamente impossibile arginare le manovre di aggiramento quali i siti .news e .info, o la comparazione quote, o il ricorso agli affiliati e agli influencer. E infatti, mentre nei mercati sorti più recentemente la linea è decisamente dura, in Italia, riscontrati gli scarsi effetti delle draconiane disposizioni introdotte dal famoso Decreto Dignità, adesso si parla di una revisione sostanziale della disciplina pubblicitaria.
Per quanto riguarda i bonus, fenomeno prettamente online, l’autorità potrebbe pure farsi da parte (vedi il caso italiano), dato che alla fin dei conti l’offerta fa parte del rischio d’impresa che gli operatori si assumono, dando solo vantaggi ai rispettivi utenti. Però, non può trascurarsi il fatto che la concessione di bonus generosi è tipico della strategia di ‘cattura’ del cliente, specialmente il novizio, che in un mercato come questo può avere dei risvolti psicologici e sociali negativi.
Comunque sia, questo conflitto è inevitabile: mentre certe ‘sirene’ aiutano ad attrarre i consumatori verso il mercato regolamentato, possono anche fungere da fattori scatenanti per il gioco compulsivo.
Una regolamentazione efficace riconosce questa tensione, accettando che alcune caratteristiche popolari, ma potenzialmente problematiche, come bonus e pubblicità per l’appunto, sono necessarie per ricondurre i consumatori nell’ecosistema autorizzato. Raggiungere questo equilibrio è essenziale, ma in pratica è un concetto difficile da abbracciare da parte dei decisori politici, molti dei quali, al contrario scelgono di inasprire in modo perpetuo le restrizioni sugli operatori autorizzati, rendendo involontariamente più attraente il mercato senza licenza. A complicare ulteriormente la sfida c’è la struttura delle agenzie di regolamentazione, che sono spesso divise tra dipartimenti con priorità in competizione. Uno può concentrarsi sull’applicazione delle regole contro gli operatori senza licenza, mentre un altro è incaricato di implementare le protezioni dei consumatori all’interno del mercato con licenza. Sebbene queste protezioni siano importanti, a volte possono ridurre l’attrattiva per i consumatori, indebolendo la canalizzazione e minando lo scopo principale della regolamentazione, col rischio che meno consumatori beneficino delle tutele di un mercato regolamentato, compromettendo la loro tutela complessiva.
E’ dunque di fondamentale importanza che, all’interno di un organismo regolatore, i dipartimenti si muovano non per compartimenti stagni, ma lavorando ognuno per la propria competenza su una linea comune.
In definitiva, la nostra posizione è chiara: per fare progressi significativi, i regolatori devono andare oltre la ricerca di un mercato “perfettamente sicuro”, che limiti tutte le caratteristiche potenzialmente dannose, e concentrarsi invece sulla costruzione di un mercato sostenibile e regolamentato.
Questo approccio non vuol dire ignorare misure di gioco più sicure; piuttosto, vale a dire progettarle per rispettare la scelta del consumatore, mantenendo al contempo l’attrattiva del mercato. In altre parole, un quadro normativo di successo crea un mercato che i consumatori vogliono scegliere, non uno in cui si sentono costretti. Magari, l’industria e i suoi regolatori potrebbero non concordare mai completamente sull’equilibrio ideale tra caratteristiche coinvolgenti e rischi associati. Tuttavia, questo dibattito è necessario e sarà sicuramente produttivo.